Viva la pasta al pomodoro, ma a porzioni ridotte

Un simbolo della nostra cucina all’estero, nonché regina della tavola italiana, per tutti la pasta è “il vero piatto tipico italiano”, e se 9 italiani su 10 la mangiano regolarmente 1 su 3 lo fa tutti i giorni. Eppure ne mangiamo sempre meno. Complici i cambi di abitudini alimentari, i consumi di pasta diminuiscono del 17% nella porzione media, passata da 106 grammi a 87 grammi, e del 6% nella frequenza di consumo. I dati provengono da una ricerca sul futuro della pasta realizzata da Eumetra per Unione Italiana Food (già Aidepi), l’associazione che unisce e rappresenta i produttori di pasta italiani, su un campione di 3000 intervistati.

A pranzo è sempre la n. 1

In ogni caso, se la pasta è il primo alimento consumato a pranzo (85%), a cena è l’ultimo, con il 17% delle preferenze. Il motivo è che secondo la ricerca gli italiani continuano a pensare che la pasta faccia ingrassare (18%) e che sia meglio ridurne i consumi per la propria salute (16%), mentre il 45% rinuncia alla pasta di sera per stare leggero. Nel mondo invece i consumi di pasta nell’ultimo decennio sono aumentati, passando da 9 a 15 milioni di tonnellate annue. I Paesi dove esportiamo di più sono Germania, Regno Unito, Francia e USA, mentre i mercati strategici da cui arrivano le performance più importanti di inizio 2019 sono Arabia Saudita (+90%), Emirati Arabi Uniti (+25%), Cina (+22%) e Australia (+16%).

Più di 300 formati per il 90% del mercato

Della tradizionale pasta gialla esistono oltre 300 formati, e rappresenta circa il 90% del mercato. La pasta corta (penne, rigatoni, fusilli…), è in testa alle preferenze (78%), davanti a spaghetti e vermicelli (72%), mentre per quanto riguarda i condimenti vince il sugo di pomodoro (80%), davanti al ragù (67%), pesto o altri condimenti a base di verdure (64%). Accanto alla pasta tradizionale ora però si possono trovare l’integrale (circa +20%), la gluten free, quelle con farine alternative e superfoods, come spezie, kamut, legumi, farro. Ma quella tradizionale stravince alla prova del gusto e della semplicità di preparazione. Per questo il 70-80% dei consumatori di paste alternative continua a ancora a consumarla.

Nel 2018 il 58% della produzione è stato esportato

Nel 2018 i nostri pastifici hanno prodotto 3.370.000 tonnellate di pasta (+0,3% rispetto al 2017), confermandoci il Paese che ne consuma di più (con 23 kg di pasta pro capite). Più della metà della produzione (58%) nel 2018 è stata esportata, col risultato che un piatto di pasta su 5 mangiato nel mondo e circa 3 su 4 in Europa sono preparati con pasta italiana, riporta Askanews.

Dal canto loro i pastifici italiani (120 imprese, 4,8 miliardi di euro di fatturato) stanno investendo in media il 10% del proprio fatturato in ricerca e sviluppo per rendere gli impianti moderni, sicuri e sostenibili. Ma anche per rispondere alle esigenze di un mercato sempre più attento a gusto e nutrizione.

Fiducia: in leggero aumento per i consumatori, in calo per le imprese. I dati Istat

L’economia percepita sembra essere più positiva per i consumatori che per le imprese. Lo dicono gli ultimi dati Istat, riferiti a settembre 2019: l’indice del clima di fiducia dei consumatori è stimato in salita dal 111,9 a 112,2, ,mentre quello delle imprese scivola leggermente da 98,8 a 98,5. L’incremento dell’indice di fiducia dei consumatori, spiega l’Istituto di statistica, è la sintesi di andamenti eterogenei delle sue componenti: il clima economico registra un calo passando da 127,7 a 127,0 mentre il clima corrente rimane stabile a quota 110,0; si rileva, invece, un aumento sia per la componente personale sia per quella futura (da 107,0 a 107,8 e da 115,5 a 116,8, rispettivamente). L’Istat commenta che a “settembre 2019 la ripresa del clima di fiducia dei consumatori deriva in particolare da un miglioramento della valutazione della situazione personale e delle prospettive future”. L’Istituto sottolinea che “per le imprese si registra invece un nuovo indebolimento del clima di fiducia. La flessione di settembre è trainata dal settore manifatturiero, in calo per il quarto mese consecutivo, e dal commercio al dettaglio. I segnali positivi riguardano il settore dei servizi e, soprattutto, il comparto delle costruzioni”.

Per le imprese, ottimismo diverso a seconda dei comparti

Per quanto riguarda le imprese, sottolinea Adnkronos, l’indice di fiducia mostra andamenti differenziati nei diversi comparti. E’ infatti in diminuzione nella manifattura e nel commercio al dettaglio (da 99,6 a 98,8 e da 109,9 a 107,6, rispettivamente) mentre è in aumento nei servizi (da 97,4 a 98,5) e, soprattutto, nelle costruzioni (da 140,4 a 143,2). Per quanto riguarda le componenti dei climi di fiducia delle imprese, nell’industria manifatturiera il peggioramento è condizionato da una dinamica negativa sia dei giudizi sugli ordini sia delle attese di produzione; i giudizi sulle scorte rimangono stabili. Nelle costruzioni l’evoluzione positiva dell’indice è determinata da un deciso miglioramento sia dei giudizi sugli ordini sia delle attese sull’occupazione.

Il comparto dei servizi è “fiducioso”, meno quello del commercio

Più fiducioso il comparto dei servizi, che esprime un miglioramento dei giudizi sia sugli ordini sia sull’andamento degli affari; le attese sugli ordini sono invece in peggioramento. Per quanto attiene il commercio al dettaglio, il calo dell’indice di fiducia sintetizza giudizi sulle vendite e sulle scorte in marcato peggioramento a cui si unisce un aumento delle attese sulle vendite. Si segnala che l’indice di fiducia è in diminuzione sia nella grande distribuzione sia in quella tradizionale.

Il commento delle associazioni dei consumatori

Dal canto loro, le associazioni dei consumatori Codacons e Unc commentano questi risultati evidenziando l’effetto del nuovo Governo. “Come tradizione, con la nascita di un nuovo Esecutivo gli italiani confidano in un cambiamento e guardano con rinnovata speranza al futuro” ma “il problema è mantenere questa fiducia e non tradirla” dice Massimiliano Dona, presidente dell’Unione Nazionale Consumatori. Carlo Rienzi, presidente del Codacons, sottolinea le “elevate aspettative delle famiglie” dal cambio di esecutivo ma avverte che sulle imprese grava invece la preoccupazione dell’aumento dell’Iva.

Ulivi in montagna e vendemmie anticipate, l’impatto del clima sull’agroalimentare

Il cambiamento climatico e la tendenza al surriscaldamento ha un impatto anche sulla produzione agroalimentare italiana. Una tendenza che secondo la Coldiretti cambia la distribuzione delle coltivazioni e le loro caratteristiche. Qualche esempio? L’ulivo, tipicamente mediterraneo, in Italia si è spostato a ridosso delle Alpi, mentre in Sicilia e in Calabria sono arrivate le piante di banane, avocado e di altri frutti esotici, mai viste prima lungo la Penisola.

E il vino italiano con il caldo è aumentato di un grado negli ultimi 30 anni, e nel tempo si è verificato un anticipo della vendemmia anche di un mese rispetto al tradizionale periodo di settembre.

Una situazione che mette a rischio il patrimonio di prodotti tipici Made in Italy

Il riscaldamento inoltre provoca anche il cambiamento delle condizioni ambientali tradizionali per la stagionatura dei salumi, per l’affinamento dei formaggi o l’invecchiamento dei vini.

Una situazione che di fatto, continua la Coldiretti, mette a rischio il patrimonio di prodotti tipici Made in Italy, che devono le proprie specifiche caratteristiche essenzialmente o esclusivamente all’ambiente geografico.

Giugno 2019, il secondo più caldo dal 1880

Il 2019 si classifica come il secondo anno più caldo di sempre, facendo registrare nel primo semestre una temperatura media sulla superficie della terra e degli oceani superiore di 0,95 gradi rispetto alla media del ventesimo secolo.

È quanto emerge dagli ultimi dati del Noaa, il National Climatic Data Centre, che li rileva dal 1880. Una situazione determinata da un giugno mai così caldo, che ha fatto saltare tutti i record in Europa, dove la temperatura è stata di 2,93 gradi superiore la media. Anche in Italia lo scorso mese di giugno è stato molto caldo, con una temperatura superiore di 3,3 gradi rispetto alla media, che lo classifica al secondo posto per temperatura elevata dal 1800, quando sono iniziate le rilevazioni secondo Isac Cnr, riporta Adnkronos.

La tropicalizzazione del cima in un decennio è costata all’agricoltura oltre 14 miliardi

Si registra peraltro una evidente tendenza alla tropicalizzazione, che si manifesta con una più elevata frequenza di eventi violenti, sfasamenti stagionali, precipitazioni brevi e intense e il rapido passaggio dal sole al maltempo, con sbalzi termici significativi.

Il ripetersi di eventi estremi sono costati all’agricoltura italiana oltre 14 miliardi di euro in un decennio, tra perdite della produzione agricola nazionale e danni alle strutture e alle infrastrutture nelle campagne.

L’agricoltura, aggiunge la Coldiretti, è l’attività economica che più di tutte le altre vive quotidianamente le conseguenze dei cambiamenti climatici, ma è anche il settore più impegnato per contrastarli.

Più di 5 milioni di italiani si spostano in sharing

Non si ferma l’ascesa della sharing mobility, una modalità di spostamento che convince ormai più di 5 milioni di italiani. Tra car sharing, scooter sharing, carpooling, bike sharing, nel 2018 nel nostro Paese i servizi attivi sono stati 363, 14 in più dell’anno precedente, e gli iscritti a essi 5,2 milioni, un milione in più del 2017. Quanto agli spostamenti, nel 2018 se ne sono registrati 33 milioni, in media 60 al minuto, il doppio del 2015. A fare il punto sulle condizioni del settore è il terzo rapporto nazionale sulla sharing mobility presentato in occasione della Conferenza nazionale sulla sharing mobility. 

I numeri della condivisione

Secondo il rapporto la popolarità di una mobilità che sta rivoluzionando il modo di spostarsi in città trova una conferma nei numeri assoluti, che parlano di 7961 auto in car sharing (2126 elettriche) di cui 6787 free floating (l’auto che si preleva e si lascia ovunque), e 1174 station based (si preleva e lascia in appositi spazi). A queste si aggiungono 2240 scooter in sharing, di cui il 90% elettrici, circa 36.000 bici offerte in bike sharing, e 271 comuni in cui è attivo almeno un servizio di sharing mobility (57% al nord). Con Milano e Torino le città maggiormente fornite, e la prima confermata come prima città della sharing mobility.

Sempre più sostenibile

A questi dati confortanti si accompagna poi una tendenza sempre più green della mobilità in condivisione. Aumentano infatti i veicoli elettrici, soprattutto grazie al boom dello scooter sharing, che segna +285% dei noleggi in un anno. Nel 2018 infatti la quota di auto e scooter elettrici condivisi rispetto al totale è passata dal 27% al 43%. Una piccola contrazione, riporta Adnkronos, si registra invece nel bike sharing, con la chiusura di alcuni servizi e una riduzione del 9% delle bici “su strada”.

Il 54% degli italiani aumenterà l’utilizzo nei prossimi 3 anni E nonostante l’auto privata rimanga tuttora il mezzo di trasporto più utilizzato (57%), più della metà degli intervistati da una ricerca Deloitte (54%), dichiara che aumenterà l’utilizzo dei nuovi servizi di mobilità nei prossimi 3 anni, e il 69% in logica complementare e non sostitutiva all’auto di proprietà. Questo, purché vi sia un’evoluzione dell’offerta lungo quattro direttrici. Prima fra tutte la convenienza economica, richiesta da 9 italiani su 10, seguita dalla facilità di accesso al servizio (7 su 10), e dalla chiarezza dell’offerta: 7 italiani su 10 reputano i servizi ancora poco chiari, anche in riferimento a quelli più conosciuti, e 1 su 2 non sa che si tratta di una formula pay-per-use. Ultimo requisito, la riconoscibilità dell’operatore che fornisce il servizio: 6 intervistati su 10 non conoscono offerte di mobilità di importanti operatori non tradizionali.

Il mondo è generoso: 1 persona su 4 fa volontariato

Nel 2018 più di una persona su 4 nel mondo ha dedicato tempo a una organizzazione senza scopo di lucro senza ricevere in cambio alcun compenso: la notizia, che fa ben sperare per il futuro dell’umanità, è il frutto di un report amplissimo condotto da BVA DOXA, in collaborazione con WIN, network internazionale di società di ricerca di mercato e di opinione pubblica. Il sondaggio, effettuato su scala mondiale, ha coinvolto 31.890 persone in 41 Paesi diversi.

Giovani e senior, istruiti e senza distinzioni di sesso: ecco l’identikit dei volontari

L’analisi riporta molteplici dati interessanti che fotografano le attitudini della popolazione mondiale. Ad esempio, si scopre che il 28,5% di tutte le persone intervistate nel 2018 ha dedicato tempo a una organizzazione senza scopo di lucro senza ricevere in cambio alcun compenso. Ancora, non ci sono differenze di genere: maschi e femmine fanno volontariato in egual misura. E’ invece una discriminante l’età: la percentuale più alta di persone impegnate in attività di volontariato è nella fascia d’età 18-24 anni (33%) e tra gli over 65 (29%), così come si legge che coloro che hanno raggiunto un livello di istruzione superiore sono più impegnati in attività di volontariato (42%) rispetto a quelli che hanno un grado di istruzione inferiore (18%). I Paesi più sensibili in questo ambito, cioè quelli con il più alto tasso di volontariato, sono il Paraguay (57%) e la Cina (57%), mentre quelli con il tasso più basso sono la Corea del Sud (6%) e l’Italia (7%). Livelli molto elevati di volontariato sono registrati anche in Australia (46%), Sudafrica (44%), India (43%) e Stati Uniti (42%). Livelli bassi invece si hanno in Indonesia (10%), Giappone (14%) e Pakistan (16%).

Il caso Italia

Per quanto riguarda il nostro Paese, non è esatto affermare che quel 7% di persone attive in organizzazioni benefiche sia una percentuale bassa tout court. I ricercatori sottolineano che esiste una peculiarità relativa proprio al dato italiano: probabilmente gli intervistati italiani hanno risposto in modo più scrupoloso attenendosi esclusivamente alle attività di volontariato svolte in modo regolare/sistematico (e non solo occasionale) e soprattutto limitandosi a quanto fatto per conto di organizzazioni no-profit, escludendo dunque tutto ciò che fanno su iniziativa individuale o per conto di altri tipi di realtà (ad esempio parrocchie, scuole, associazioni, società sportive, comunità, gruppi di cittadini, e così via).

Un ruolo sempre più importante

“Il ruolo dei volontari è sempre più cruciale. È importante che i nostri media, i nostri governi e le nostre istituzioni continuino a premiare e a incoraggiare il volontariato. Oltre ad aiutare gli altri, il volontariato ha dimostrato di migliorare anche il benessere dei volontari stessi. È naturale che ognuno si senta appagato dopo avere aiutato qualcuno. La nostra indagine globale con dati provenienti da 31.890 persone in 41 Paesi, ha anche rilevato che ci sono differenze molto ampie a livello nazionale rispetto al tema del volontariato” ha commentato Vilma Scarpino, amministratore delegato di BVA Doxa e presidente di WIN.

Prodotti di largo consumo, da gennaio ad aprile +2% a valore

Nel periodo tra gennaio e aprile 2019 le vendite a valore nel largo consumo hanno registrato un incremento pari al +2% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, con una previsione di chiusura dell’anno dell’1,5% a valore. La tenuta della fiducia dei consumatori, la maggiore attenzione ai temi ambientali e al bio, e la crescita dell’e-commerce sono le tendenze che segnano l’andamento del largo consumo nei primi mesi del 2019. Le previsioni vedono un 2019 positivo, ma qualche preoccupazione è legata alle possibili chiusure domenicali, e all’aumento dell’Iva.

Crescita a valore maggiore al Sud e nelle Isole

Da quanto emerge dai dati di Nielsen la fiducia degli italiani risulta quindi stabile a quota 68 rispetto ai 70 punti del 4° trimestre 2018. Non emergono segnali evidenti di ritorno ai livelli bassi del passato, in linea con quanto osservato anche negli altri Paesi europei. “Il ruolo del mondo del largo consumo, comunque, rimane centrale nel panorama macro-economico del nostro Paese, anche a fronte di un Pil vicino a crescita zero”, dichiara Romolo de Camillis, Retailer Services Director di Nielsen Italia. I primi quattro mesi del 2019 confermano quindi gli andamenti positivi per tutti i prodotti, riporta Askanews. A livello di aree geografiche si osserva una crescita a valore maggiore al Sud e nelle Isole (+2,6%) rispetto al resto d’Italia, con il Nord Ovest a +2,2%, il Nord Est a +1,7%, e il Centro a +2,5%.

Salgono i prodotti con claim green

Tra i produttori l’innovazione continua a svolgere un ruolo chiave per la crescita. L’attenzione ai temi ambientali porta infatti i prodotti del cura casa con claim green a salire del +3,1%. In particolare, quelli “meno plastica” (+24,5%), “plastica riciclata” (+9,6%), biodegradabile (+7,8%). I prodotti per la cura della persona registrano poi un +14,9% per il claim biologico. Una prima mappa dell’offerta online registra circa 830 punti vendita che nel Paese offrono i servizi click & collect (ordino online e ritiro nel punto vendita) e click & drive (ordino online e ritiro con l’auto). Al netto degli sviluppi dell’offerta online, le vendite mostrano una crescita significativa nel primo quadrimestre 2019 (variazione di fatturato pari a +27,70%), contribuendo per circa lo 0,2% alla crescita complessiva della GDO.

Effetti negativi di un possibile aumento dell’Iva

In uno scenario competitivo sempre più esteso, poi, il discount si dimostra il canale più interessante. Dopo più di cinque anni di crescita continuativa inizia a configurarsi come un vero e proprio competitor del canale super. Ed è leader per margine: l’utile prodotto dalle principali aziende discount rappresenta bene il 34,2% degli utili distributivi (fonte Mediobanca). Riguardo al dibattito sul tema delle aperture domenicali, Nielsen ha quantificato l’incidenza delle vendite delle domeniche al 10% del totale, in crescita rispetto al passato. Anche un possibile aumento dell’Iva potrebbe avere effetti negativi sulle vendite del largo consumo, con i consumatori pronti ad adottare misure contenitive per neutralizzare gli aumenti di prezzo.

Mini scosse al cervello per far ringiovanire la memoria

Con l’avanzare degli anni quasi tutte le persone sperimentano un declino delle capacità di memoria. Invecchiando la capacità di ricordare si altera, non è una novità. Ma bastano mini-scosse indolori localizzate su determinate aree del cervello e la memoria ringiovanisce. Sembra infatti che stimolare una porzione precisa del cervello con impulsi elettromagnetici aiuti a migliorare la memoria degli anziani, facendola tornare al livello di quella di persone più giovani. Almeno, è quanto emerge da uno studio della Northwestern University, pubblicato sulla rivista americana Neurology.

Recuperare la capacità di memoria negli anziani

Lo studio, condotto su 16 persone con età dai 64 agli 80 anni, e in alcuni casi con normali problemi di memoria legati all’età, mostra che con questo tipo di stimolazione cerebrale è possibile recuperare la capacità di memoria negli anziani.

Durante lo studio, “la memoria delle persone anziane migliorava al punto che non potevamo più distinguerla da quella dei soggetti più giovani”, spiega Joel Voss, professore associato alla Northwestern University e responsabile dello studio. Di fatto, aggiunge Voss, gli anziani “Sono migliorati sostanzialmente”.

La stimolazione magnetica transcranica “colpisce” l’ippocampo

Lo studio ha utilizzato la stimolazione magnetica transcranica per colpire l’ippocampo, la regione del cervello che si “atrofizza” quando le persone invecchiano, ed è responsabile del declino della memoria legato all’età. “Si tratta della parte del cervello che collega due cose non correlate fra loro in un ricordo, come ad esempio il posto in cui hai lasciato le chiavi o il nome del nuovo vicino di casa – continua Voss -. Gli anziani spesso si lamentano di avere problemi con questo tipo di ricordi”.

Il team ha localizzato l’ippocampo, che nelle persone anziane risulta più piccolo, di ogni partecipante con una risonanza magnetica funzionale. Per la stimolazione i ricercatori hanno poi localizzato anche un’area specifica del lobo parietale che comunica con l’ippocampo.

Le persone più anziane hanno raggiunto il livello degli adulti più giovani

Dopo avere condotto sui pazienti una serie di test di memoria i ricercatori hanno eseguito un trattamento di stimolazione magnetica mirato per cinque giorni consecutivi e per 20 minuti al giorno. E i risultati non si sono fatti attendere. Come hanno mostrato gli esami condotti in seguito, riporta Adnkronos, stimolare quest’area ha infatti migliorato la funzione delle regioni importanti per la memoria. Non solo, 24 ore dopo la stimolazione finale ai soggetti è stato sottoposto un nuovo test di memoria, che ha dimostrato come le persone più anziane coinvolte abbiano raggiunto il livello degli adulti più giovani.

Sullo smartphone si gioca per il 26% del tempo. E il futuro dei game è nel 5G

Videogiochi, una passione che da Pong, il primo videogioco arcade della Atari, non accenna a passare di moda. Anche se da allora sono cambiate tantissime cose, come ad esempio le abitudini dei gamer, in continua evoluzione per adattarsi alle novità tecnologiche del mercato. Non si gioca più infatti solamente su PC o console, ma anche su smartphone e tablet, particolarmente apprezzati soprattutto per giocare “in movimento”. Tanto che oggi il boom del gaming da dispositivi mobile guida la crescita del settore videogiochi. E il 26% delle ore spese su mobile è proprio destinato al gaming.

Entro il 2023 il 54% dei gamer sceglierà il mobile

Secondo un rapporto di Ericsson sul mondo dei videogiochi entro il 2023 il 54% degli intervistati giocherà dallo smartphone. Una percentuale che scende al 37% per quanto riguarda i tablet, al 39% per le console e al 46% per i PC. Per quanto riguarda i momenti e i luoghi in cui gli utenti preferiscono giocare, a oggi il luogo preferito rimane casa propria, soprattutto durante le ore serali (43%) o notturne (47%). Altre occasioni di gioco riguardano il tempo trascorso sui mezzi di trasporto (21%), a scuola o in ufficio (16%), al ristoranti o al bar (14%) o in casa di amici (13%).

Ma chi pensa che i videogiochi siano ancora appannaggio dei ragazzi molto giovani deve ricredersi. Se i teenager percepiscono il gaming come un passatempo gli utenti nella fascia di età dai 25 ai 34 anni lo considerano un’attività molto importante nella vita quotidiana.

Realtà Virtuale e Realtà Aumentata le next big thing dei game

La next big thing nel mondo del gaming è la Realtà Aumentata. Ed è proprio lo smartphone uno dei migliori strumenti per fruire contenuti in questa tecnologia, anche se molti consumatori sono frenati dal non possedere un telefono abbastanza ‘buono’ per poterla sfruttare. In ogni caso, né AR né Realtà Virtuale, riporta Agi, al momento beneficiano della disponibilità di titoli validi e accessori di alta qualità a prezzi accessibili. Fattori che a oggi ne limitano la diffusione.

Il 5G darà la spinta decisiva ad VR e AR

Per il 32% degli intervistati, però, la vera spinta verso l’utilizzo della Realtà Aumentata arriverà quando non sarà più necessario dover tenere in mano un tablet o uno smartphone per giocare. A dare un forte impulso all’utilizzo di Realtà Virtuale e Aumentata nell’industria del gaming sarà però anche il 5G, che garantendo latenze prossime allo zero, altissima affidabilità della connessione anche in movimento e maggiori capacità e velocità, promette di dare la spinta decisiva alle nuove frontiere del game.

I gamer però non si accontentano mai, e apprezzerebbero parecchio la possibilità di poter avere a disposizione gli oggetti virtuali creati con un videogioco al termine della sessione

Italia deferita a Corte Ue per scarsa qualità dell’aria (e dell’acqua)

L’Italia non rispetta la direttiva UE sulla qualità dell’aria, in particolare, per quanto riguarda i limiti massimi consentiti per il biossido di azoto. La Commissione europea ha deciso quindi di deferire l’Italia alla Corte di Giustizia dell’Ue. L’Italia infatti avrebbe dovuto adeguarsi agli obblighi previsti dalla direttiva che limita i livelli di biossido di azoto entro il 2010, quello annuale (40 microgrammi per metro cubo) e quello orario (200 microgrammi per metro cubo, da non superare per più di 18 giorni l’anno). Oltre all’aria “sporca” l’Italia è stata deferita anche per il mancato rispetto della direttiva sul trattamento delle acque reflue urbane. Ovvero, la mancata depurazione delle acque di scarico.  Magrissima consolazione: anche Francia, Germania, Regno Unito, Romania e Ungheria sono interessati da provvedimenti simili.

La mappa italiana dell’aria inquinata

L’elenco provvisorio delle zone italiane interessate al superamento dei livelli di biossido di azoto comprende Torino, Milano, Bergamo, Brescia, la pianura lombarda (non meglio specificata), Genova, Firenze, la costa toscana (non meglio specificata) e Roma (per il periodo 2010-13). Oltre a Campobasso e alcune aree industriali siciliane (2010-12), Catania per il 2012, e ancora Catania e alcune aree industriali siciliane per il 2014-15.

Milano, unica in Italia, ha anche sforato il limite orario nel periodo 2010-13. Il deferimento in Corte, che potrebbe risultare in una sanzione finanziaria, per il superamento dei limiti relativi al biossido di azoto si aggiunge a quello del maggio 2018, in quel caso per i limiti relativi al Pm10.

Cattiva gestione delle acque reflue per circa 800 Comuni

Per quanto riguarda il deferimento sulle acque reflue la procedura di infrazione risale al 2014. Entro il 2005 lo Stato italiano avrebbe dovuto predisporre reti fognarie adeguate e sistemi di trattamento secondario prima dello scarico, ed entro il 1998 (21 anni fa), avrebbe dovuto riservare un trattamento migliore delle acque per le aree più sensibili, e predisporre impianti di trattamento biologico delle acque, riferisce Adnkronos.

La cattiva gestione delle acque reflue riguarda circa 800 Comuni, 18 in Abruzzo, 40 in Basilicata, 129 in Calabria, 108 in Campania, 7 in Friuli-Venezia Giulia, 4 nel Lazio, 6 in Liguria, 119 in Lombardia, 46 nelle Marche, 1 in Piemonte, 27 in Puglia, 41 in Sardegna, 176 in Sicilia, 34 in Toscana, uno nella Provincia di Trento, 5 in Umbria, uno in Valle d’Aosta e 26 in Veneto, più un’area sensibile condivisa tra quattro regioni del Nord.

Quattro procedure di infrazione aperte per impianti fognari e depuratori

Alcuni degli agglomerati sono molto grandi. Si tratta di città come Roma, Firenze, Napoli, Bari e Pisa. Sul trattamento delle acque reflue urbane, cioè in pratica sugli impianti fognari e sui depuratori, l’Italia ha 4 procedure di infrazione Ue aperte. A questo proposito è stato nominato un commissario, Enrico Rolle, che ha competenza sui Comuni oggetto di procedura con deferimento in Corte. Il deferimento in Corte prelude a possibili sanzioni pecuniarie nei confronti dello Stato italiano.

Lavoro, i posti (anche) ben pagati che nessuno vuole

In Italia si sente parlare spesso di disoccupazione, povertà, e di reddito di cittadinanza, ma quasi mai dei tanti posti di lavoro che nessuno vuole occupare. A cominciare da quelli del settore digitale. Le aziende italiane infatti hanno un grandissimo bisogno di profili digital, in grado di sfruttare al meglio le nuove tecnologie e le nuove possibilità, ma almeno per ora il nostro Paese sembra non essere in grado di offrire abbastanza. Proprio per questo motivo le aziende si affidano sempre più ai servizi delle agenzie di selezione di personale, come ad esempio la società milanese di head hunting Adami & Associati, specializzate nella ricerca di figure poco presenti sul mercato.

Il gap tra la domanda e l’offerta di figure Ict

“Esiste un concreto e non trascurabile gap tra la domanda e l’offerta di lavoro, soprattutto per quanto riguarda le professioni tecnologiche”, sottolinea la CEO e founder Carola Adami. Questo significa che il fabbisogno delle aziende di determinate figure, come specializzati in Big Data, Data scientist, Data architect, Sviluppatori software, Chief digital officer, ingegneri informatici, insomma, i laureati in Information and Communications Technology, superano molto spesso l’effettiva disponibilità di tali figure. Ma la difficoltà delle imprese non è solo nell’assumere profili altamente qualificati per le nuove professioni digitali.

Nonostante la crisi permangono molti lavori che pochi sono disposti a fare

“Va evidenziato il fatto che le aziende arrancano talvolta anche nell’individuare delle figure più tradizionali, che spesso tra i requisiti minimi non contemplano un titolo di laurea- continua Adami -. Parliamo infatti di ruoli come il perito tecnico e l’elettrotecnico, o ancora, il falegname, il cablatore, l’idraulico, il manutentore, l’elettricista, l’estetista, il camionista e il panettiere”.

Proprio così: nonostante la recente crisi economica dal quale il Paese sta lentamente uscendo, permangono molti lavori che poche persone sono disposte a fare. Molto spesso, si tratta di ruoli che non richiedono particolari titoli accademici, e che garantiscono retribuzioni più che dignitose. Per molte professioni artigiane e per alcune professioni tecniche, infatti, le retribuzioni annue toccano i 40mila euro.

“Per molti giovani il lavoro manuale corrisponde a un’occupazione umile”

Per quale motivo, dunque, gli italiani non sono disposti ad accettare questi lavori, e dunque a rispondere alle richieste delle aziende in cerca di manodopera? “Per molti giovani il lavoro manuale corrisponde a un’occupazione umile, dal valore medio basso, e che in ogni caso richiede sforzi e sacrifici eccessivi – sottolinea Adami -. Per questo motivo, tali proposte di lavoro non vengono prese in considerazione, rimangono inascoltate, rallentando pesantemente i processi di recruiting delle aziende”.

Sbaglia quindi chi pensa che con la rivoluzione digitale le professioni artigiane siano destinate a scomparire. É vero il contrario, il bisogno di artigiani professionisti continuerà a essere impellente. “Tutt’al più – prosegue l’head hunter – questi profili saranno chiamati a rinnovarsi e ad acquisire nuove skills, trasformandosi pian piano nei cosiddetti artigiani 4.0”.