Nel limbo dei Neet più di una ragazza su 4 tra 15 e 29 anni

Trovarsi nella condizione di non studiare, non lavorare, non essere inserita in alcun percorso formativo, non avere prospettive per il futuro né la possibilità di realizzare i propri sogni e il proprio potenziale, insomma, trovarsi nel limbo dei cosiddetti Neet. È questa la condizione in cui si trovava alla fine del 2020 più di 1 ragazza italiana su 4 di età tra i 15 e i 29 anni. Un divario di genere che già nel 2019 presentava picchi fino al 40% in Sicilia e in Calabria, ma che riguardava anche i territori generalmente più virtuosi, come il Trentino Alto Adige, dove a fronte del 7,7% dei ragazzi, le ragazze Neet erano quasi il doppio (14,6%). Lo sottolinea Save the Children, evidenziando inoltre come nella vita di tutti i giorni siano ancora troppi gli stereotipi che segnano la quotidianità di moltissime ragazze.

Stereotipi di genere che condizionano il futuro professionale delle donne

Esistono stereotipi di genere di tipo sistemico ben radicati nella nostra società, che le bambine e le ragazze cominciano a conoscere già nella prima infanzia, e che creano disuguaglianze che le separano dai coetanei maschi man mano che crescono. Divari che si ampliano e ripercuotono poi sul fronte occupazionale, nonostante bambine e ragazze siano più brave a scuola, abbiano meno bocciature e abbandoni scolastici e competenze maggiori in lettura e in italiano e arrivino a laurearsi molto più dei ragazzi. Progressivamente, però, già a partire dalla scuola primaria, si allontanano dalle materie scientifiche, prospettiva che influenza l’indirizzo di studio e della facoltà universitaria e, che insieme ad altri fattori che ostacolano la piena indipendenza delle donne, conduce alla segregazione orizzontale e verticale nel lavoro e nelle carriere, a partire dai settori più innovativi.

Le mamme sono state tra le più colpite dagli effetti della crisi economica

“Una generazione di bambine e ragazze sta vedendo tale situazione acuirsi anche a causa della crisi che stiamo vivendo per via della pandemia – dichiara Raffaela Milano, direttrice dei Programmi Italia-Europa di Save the Children -. Le mamme, inoltre, sono state tra le più colpite dagli effetti della crisi economica e la mancanza di servizi per la prima infanzia e la necessità di prendersi cura dei bambini in questa fase difficile ha pregiudicato il futuro lavorativo di molte di loro”.

“Non ci si può permettere di disperdere il potenziale delle ragazze”

“In questo momento storico è indispensabile andare alla radice di queste diseguaglianze – continua Milano – perché non ci si può permettere di disperdere il potenziale delle donne e delle ragazze, a partire proprio da quelle che vivono nei contesti più svantaggiati, con interventi specifici volti a liberare talenti e capacità dell’universo femminile. Sono necessari investimenti strutturali che riguardino il mondo del lavoro e i servizi educativi per la prima infanzia, i percorsi educativi all’interno delle scuole, il contrasto a ogni forma di violenza di genere e il sostegno al protagonismo delle ragazze stesse”.

Cosmetica, nel 2020 -12,8% di fatturato, ma e-commerce +42%

Nel 2020 l’impatto del Covid sul settore della cosmetica fa flettere il fatturato globale del 12,8%, e l’export del 16,5%. Solo l’e-commerce ha mostrato dati positivi. Il suo valore ha infatti raggiunto 700 milioni (+42% rispetto al 2019), portando il retail digitale al quarto posto tra i canali di distribuzione, con un peso del 7,4% sul totale del mercato nel 2020. Secondo i dati preconsuntivi 2020, il fatturato globale del settore ha sfiorato i 10,5 miliardi di euro (-12,8%), ma in calo risultano anche i valori del mercato interno (-9,6%). Sono i numeri che emergono dall’indagine congiunturale presentata dal Centro Studi di Cosmetica Italia.

Limitazioni e incertezze colpiscono l’export e i canali professionali

Risentendo delle limitazioni e delle incertezze a livello internazionale, secondo l’indagine le esportazioni hanno raggiunto un valore di oltre 4 miliardi (-16,5%), mentre è vicino a 1,9 miliardi il valore della bilancia commerciale. L’analisi dell’andamento dei canali distributivi evidenzia le dinamiche di reazione alla pandemia, condizionate dalla specializzazione di riferimento oltre che dalle limitazioni che li hanno riguardati. I canali professionali acconciatura (-28,5%) ed estetica (-30,5%) risentono infatti delle chiusure forzate del primo lockdown, oltre che, soprattutto per l’estetica, delle ulteriori restrizioni per area geografica con riferimento alle regioni in zona rossa.

Profumeria ed erboristeria condizionate dalle nuove modalità di acquisto

Pesanti contrazioni si registrano anche nelle vendite dirette (porta a porta e per corrispondenza), che chiudono l’anno a -30% rispetto al 2019. Condizionata dalle nuove modalità di acquisto, che hanno spostato i consumi verso altri canali, la profumeria, che cala del -27%. Segnali di difficoltà arrivano anche dall’erboristeria (-26%), con andamenti diversi tra monomarca e punti vendita tradizionali, riporta Askanews. Farmacia e grande distribuzione sono invece i canali che, seppur con dati in contrazione, hanno contenuto i cali. La farmacia chiude infatti il 2020 con un trend attorno al -2,5%, analogamente alla grande distribuzione. Quest’ultima continua a rappresentare oltre il 41% dei consumi cosmetici.

Le prospettive per il 2021 tuttavia sono positive

“Le prospettive di ripresa per il 2021, seppur distanti dai valori del 2019, sono legate alla natura anticiclica del comparto. Il cosmetico è infatti un bene indispensabile, come la stessa pandemia ci ha ricordato – commenta Renato Ancorotti, presidente di Cosmetica Italia -. Lo scorso anno abbiamo assistito a un’accelerazione nel cambiamento dei modelli di comportamento, alla ridefinizione degli equilibri internazionali e all’evoluzione dell’organizzazione del lavoro e delle relazioni personali: fenomeni che verosimilmente si sarebbero concretizzati nel medio periodo – sottolinea Ancorotti -. Le imprese sentono da un lato la spinta alla ripartenza, dall’altro hanno però bisogno di nuove e solide condizioni per potersi realizzare, accompagnate da un piano governativo capace di affiancarle, anche in termini di promozione del Made in Italy”.

Edilizia del futuro, come cambierà e quali saranno le competenze richieste

Come cambia l’intero comparto dell’edilizia, alla luce dei nuovi trend e dei nuovi investimenti messi in cantiere – è proprio il caso di dirlo – dal Governo per rilanciare il settore? In estrema sintesi, come concordano tutti gli analisti, sono prefabbricazione, circolarità e riduzione dei consumi le parole d’ordine dell’edilizia del futuro. Tutti obiettivi raggiungibili grazie a una svolta digitale nei processi professionali e a una forte spinta all’innovazione. Per far questo bisogna acquisire nuove competenze, grazie a corsi di specializzazione mirati.

Crescita del volume di produzione edifici entro il 2030

Entro il 2030 è prevista una rilevante crescita del volume di produzione di edifici. Anche grazie alle misure messe in atto dal Governo che stanno spingendo verso una ripresa che sta già impattando sul versante occupazionale. Basti pensare a tutte le figure professionali e alle imprese ora letteralmente sommerse di richieste per il superbonus. Il settore delle costruzioni si trova davanti a una sfida: come soddisfare una domanda in crescita con la necessità di accogliere le nuove esigenze di una società in evoluzione. L’obiettivo è ridurre l’impatto ambientale del costruito, andando progressivamente in un’ottica di green building. E molto probabilmente saranno la tecnologia e le innovazioni che sono state sviluppate negli ultimi anni a trasformare il settore in chiave smart e sostenibile.
L’edilizia è uno dei settori più energivori al mondo

Per il fatto che l’edilizia rappresenta uno dei comparti più energivori,  non sorprende che ai professionisti venga richiesta una particolare attenzione all’impatto ambientale riducendo l’approccio consumistico (di materie, spazi, energia) verso un nuovo modello basato sull’abbattimento degli sprechi e sul no-waste. Quantificare i risparmi energetici e di materiali sta diventando un imperativo: in questo processo i nuovi strumenti digitali sono un alleato indispensabile per muoversi in questa direzione. “Per un futuro che è già presente la prospettiva è che Big Data, Artificial Intelligence e Machine Learning saranno alla base di strumenti in grado di indicare le scelte più performanti per ottenere un risultato realizzativo ottimale in termini di costi, materiali, consumi energici, idrici ed inquinanti”, dice Marina Perego Direttore della Fondazione Green. “E’ per questo motivo che che con la Fondazione Green abbiamo fortemente voluto proporre un corso gratuito IFTS dedicato alla Bioedilizia e alle tecnologie Digital Green”. Anche nell’edilizia è diventato fondamentale avere le skills “giuste”: non per niente è al 30% la difficoltà di reperimento dei profili ricercati (contro il 26% del 2019) soprattutto a causa di una preparazione inadeguata. In particolare, servono competenze  in ambito digitale, richieste al 60,4% dei profili ricercati nel 2020, in ambito “green” con una domanda che si attesta all’82% e anche in entrambi.  Insomma, la competenza trasversale  è un fattore strategico di competitività.

Audience e informazione di prima serata nell’anno del Covid

L’informazione ha profondamente risentito degli effetti della pandemia, tanto da poter parlare di un’anomalia dell’andamento dei dati. L’incremento dell’audience media dell’informazione di prima serata rispetto al 2019 contrasta infatti quell’emorragia di ascolti che negli ultimi anni ha sensibilmente ridotto il pubblico del prime time, come quello complessivo della Tv generalista. Che sia proprio la pandemia da Covid-19 all’origine di questa inversione di tendenza è dimostrato dal fatto che ancora nel mese di gennaio 2020 si registrava un calo di circa 400mila teleutenti rispetto all’anno precedente. La conferma arriva dall’Osservatorio Tg Eurispes-CoRiS Sapienza, che propone un’analisi sul pubblico delle edizioni di prime time dei Tg delle 7 Reti generaliste.

Nei mesi primaverili oltre 7,5 milioni di utenza media

L’aumento maggiore di ascolti si è registrato nei mesi di marzo e aprile, con una crescita del 48% e del 52% rispetto al medesimo periodo del 2019. Una tendenza che si è riproposta anche durante la seconda ondata (ottobre-dicembre), con crescite in termini di pubblico tra il 18% e il 32% rispetto al 2019. Lo stesso è avvenuto, in misura assai minore, nei mesi estivi, con una audience media sempre superiore rispetto al 2019. In numeri assoluti, l’utenza media dei Tg del prime time è cresciuta nei mesi primaverili di oltre 7,5 milioni di spettatori (7,62 in marzo e 7,51 in aprile), raggiungendo un pubblico di più di 23 milioni di teleutenti.

In autunno risultati fortemente ridimensionati rispetto ai picchi della Fase 1

Nei mesi di marzo e aprile le edizioni serali di Tg1, Tg2 e Tg3 sono cresciute, mediamente, del 50,3%. Ancora maggiore il risultato per l’informazione di prime time Mediaset, che guadagna un 52% di audience, mentre la crescita di ascolti dell’intera rete La7 è stata pari a un +46,2% rispetto all’anno precedente. La prima fase della pandemia ha generato un impatto maggiore sul pubblico dell’informazione di prime time. I risultati, pur consistenti nei mesi di ottobre, novembre e dicembre, risultano fortemente ridimensionati rispetto ai picchi della Fase 1.

I temi del prime time nel 2020

Nel primo semestre 2020 le notizie sul Covid-19 sono state il principale argomento d’apertura dei Tg di prima serata, raccogliendo quasi il 64% delle prime pagine e il 39,7% dei titoli delle testate tele giornalistiche di Rai, Mediaset e La7. Negli ultimi mesi dell’anno, la copertura informativa ha segnato un’importante differenza rispetto alla Fase 1: le aperture hanno riguardato sempre meno i “numeri” dell’epidemia e si sono concentrate sulle misure prodotte dai numerosi Dpcm emanati dal Governo. Il “cono d’ombra” prodotto dall’inevitabile monopolizzazione dell’agenda informativa ha sostanzialmente oscurato molte importanti tematiche. L’unica finestra sul mondo rimasta aperta con una certa continuità è quella sugli Usa. Se nel primo semestre del 2020 le sette edizioni dei telegiornali nazionali hanno dedicato 330 titolazioni alle proteste nate in seguito alla morte di George Floyd, negli ultimi mesi dell’anno l’attenzione è stata catturata dalle elezioni presidenziali del 3 novembre.

Il vino italiano perde il 4,6% di export per colpa del Covid

La pandemia condiziona anche il commercio del vino, e nel 2020 l’Italia chiuderà il proprio export con un -4,6% a valore sul 2019, pari a 6,1 miliardi di euro. Ma per l’Italia tutto sommato gli effetti sono più leggeri rispetto al trend globale, stimato a un -10,5%, e ancor più rispetto al principale player del settore, la Francia, costretta a rinunciare al 17,9% delle esportazioni. Se si considera l’aumento delle quote di mercato guadagnate dal vigneto Italia il quadro è confortante, ma è l’asimmetria con il dato generale a essere allarmante, poiché cela forti ribassi in diverse fasce. A partire dalle piccole imprese ad alto tasso qualitativo. Si tratta di alcune evidenze dell’analisi a cura dell’Osservatorio Vinitaly-Nomisma Wine Monitor. In particolare, del Focus mercati – consumi e previsioni import 2020.

Una contrazione delle importazioni mondiali di oltre 3 miliardi di euro

Secondo l’Osservatorio Wine Monitor, in termini assoluti, la contrazione del valore delle importazioni mondiali di vino stimata su base doganale sarà di oltre 3 miliardi di euro rispetto al 2019, soprattutto per effetto delle mancate vendite per oltre 1,7 miliardi di euro del suo market leader, la Francia. Il forecast sull’Italia si ferma invece a -300 milioni di euro, complice anche il boom (+15%) delle esportazioni nel primo bimestre dell’anno, che ha attenuato il passivo, riporta Italpress.

Tante piccole e medie aziende stanno pagando lo scotto più rilevante

“Il dato generale sulle stime previsionali dimostra come l’Italia sia stata in grado di opporre anticorpi efficaci alla crisi – commenta il direttore generale di Veronafiere, Giovanni Mantovani -. Il rapporto qualità-prezzo, una più variegata diversificazione dei canali di vendita e lo scampato pericolo dei dazi aggiuntivi negli Stati Uniti hanno consentito di ridurre le perdite all’estero, ma il rovescio della medaglia è fatto di tante piccole e medie aziende del vino che, al contrario delle altre, hanno perso i propri riferimenti commerciali, in particolare dell’horeca, e stanno pagando uno scotto molto più rilevante della media – aggiunge Mantovani -. È questo segmento, decisivo per il nostro Made in Italy, che occorrerà salvaguardare fin da subito”.

Uno dei rischi principali è il decremento dei prezzi di vendita

“Uno dei principali rischi che derivano dalla riduzione delle importazioni nei top mercati di sbocco, unito alla diminuzione della domanda sul mercato nazionale, è quello di un decremento dei prezzi di vendita dei nostri vini – sottolinea il responsabile dell’Osservatorio Vinitaly-Nomisma Wine Monitor, Denis Pantini -. Questo vanificherebbe tutti gli sforzi messi in campo in questi anni per un miglior posizionamento di prezzo delle nostre produzioni, con effetti a catena su tutte le imprese e denominazioni”.

Covid e genitori: più timorosi o equilibrati?

Con il prolungarsi della pandemia i genitori italiani sono messi alla prova, e nei confronti dei figli oscillano fra sentirsi timorosi e mantenere un atteggiamento equilibrato nell’affrontare la difficile situazione. È quanto emerge dall’indagine La sfida dei Genitori Italiani, condotta da Bva-Doxa nel corso di due rilevazioni (febbraio e settembre 2020), che hanno consentito di misurare gli stati d’animo e gli atteggiamenti dei genitori italiani prima della pandemia da Covid-19 e nella fase successiva. Dall’indagine emergono 4 tipologie di genitori. Il polo positivo, rappresentato da Gli Sperimentatori e Gli Equilibrati, conta un 46%, e guarda al futuro con ottimismo, il polo negativo, composto da genitori pessimisti e poco soddisfatti, coinvolge il restante 54%, annoverando I Timorosi e Gli Scoraggiati.

La situazione sta mettendo alla prova anche i più organizzati e resilienti

In generale i genitori italiani con figli 0-14enni si descrivono principalmente come protettivi (47%), rassicuranti (36%) e pazienti (37%), ma tra loro, nella seconda rilevazione, cala la percentuale che si definisce allegra e aumenta quella degli ansiosi, soprattutto tra le mamme.

“I genitori sono chiamati a misurarsi costantemente, ogni giorno e contemporaneamente, con cambiamenti e sfide, personali ed educative, spesso difficili da conciliare – commenta Amedeo Giustini, AD di Prénatal Retail Group, che ha commissionato l’indagine -. La situazione che stiamo vivendo oggi sta mettendo alla prova anche i più organizzati e resilienti, ma impegno e coraggio rimangono valori nazionali solidi e diffusi”.

Trasferire ai figli il senso di responsabilità, ma anche la libertà di pensiero

Fra i due gruppi che mantengono un atteggiamento positivo gli Equilibrati sono il 28%, residenti soprattutto al Centro-Sud e nelle Isole, hanno dai 25 ai 35 anni e bambini dai 6-8 anni. Sono genitori moderati nei comportamenti e negli atteggiamenti, più degli altri vogliono trasferire ai figli l’importanza dell’impegno e il senso di responsabilità, ma anche il valore dell’essere se stessi e della libertà di pensiero. Si definiscono genitori protettivi e sono i più attenti all’ambiente e alla sostenibilità. Per loro il gioco è valore educativo, apprendimento e creatività.

La difficoltà di mantenere autorevolezza con i figli e la stabilità di coppia

Fra i gruppi che invece sono più pessimisti, i Timorosi sono il 33% e risiedono principalmente nel Nord Ovest. Hanno un’età più elevata, oltre i 46 anni, e figli dai 6-8 anni. Sono individui poco inclini ai progetti a lunga scadenza, chiusi verso il nuovo, ma senza ragioni oggettive. Da genitori avvertono in modo più sensibile degli altri la difficoltà di mantenere autorevolezza con i figli e la stabilità di coppia. Sono coloro che si definiscono i più protettivi, meno moderni, ma allo stesso tempo cercano di educare i figli all’autonomia. Amano dedicare tempo alla famiglia, tanto che tra gli insegnamenti che ritengono più importanti annoverano “godersi gli affetti e le persone care” e “avere rispetto per gli altri”.

Esigenze di mercato e laser industriali

In virtù dell’avvento dei laser industriali, oggi riusciamo ad ottenere dei risultati che i laser di vecchia generazione non riuscivano a raggiungere. È aumentato infatti il livello di precisione, così come la facilità di gestione di questo strumento, che per gran parte delle operazioni è gestito direttamente da un robot.

I settori in cui viene adoperato il laser industriale sono quello aerospaziale, estetico, medico, scientifico e automobilistico, giusto per citare alcuni esempi di quelli che sono gli ambiti in cui tale strumento è maggiormente impiegato. È facilmente intuibile dunque il motivo per il quale sono così tante le aziende che optano per questo tipo di soluzione e che benefici hanno rispetto al taglio manuale o i dispositivi di vecchia generazione.

Quali sono i vantaggi del laser industriale?

Il principale vantaggio di un laser industriale è quello di consentire un taglio di grandissima precisione anche per quel che riguarda le curvature, ma non solo. Questo ottimo strumento è infatti in grado di garantire grande precisione anche nelle operazioni di saldatura e marcatura di ogni tipo di materiale, precisione e una qualità di lavorazione facile da riconoscere.

Chiaramente vi sono dei vantaggi anche a livello economico per l’azienda che decide di adottare un laser industriale, in quanto vi è una minore necessità di manodopera e un inferiore numero di ore lavorative necessarie per produrre lo stesso numero di pezzi.

Uno strumento in grado di rispondere alle necessità di mercato

Un laser industriale di nuova generazione è perfettamente in grado di rispondere alle richieste di mercato e dunque alle necessità dei clienti finali. Proprio da tali richieste era nata la necessità di individuare soluzioni che riuscissero a consentire i produttori di mantenere inalterata la qualità velocizzando però i tempi necessari per la produzione.

Questo è il motivo per il quale sono sempre più le aziende che decidono di dotarsi di uno strumento di questo tipo riuscendo dunque a rispondere in maniera efficace alle necessità di mercato.

Donne e lavoro, nella PA sono il 35%: ancora troppo poche

Il divario tra donne e uomini nel mondo del lavoro in Italia è ancora rilevante, sia in termini di occupazione sia di retribuzione. Anche nel pubblico impiego, dove le lavoratrici sono ai minimi in Europa: rappresentano circa il 35% dei dipendenti nella PA e difesa, previdenza sociale e obbligatoria. Le risorse rivolte direttamente a contrastare il gender gap ammontano a 2,17 miliardi di euro, pari allo 0,3% del totale delle spese del bilancio dello Stato. È quanto stima il bilancio sperimentale di genere del ministero dell’Economia, inviato dal ministro Roberto Gualtieri ai presidenti di Camera e Senato.

Il divario rispetto agli uomini è del 17,9% 

Complessivamente, l’occupazione femminile ha superato la soglia del 50% per la prima volta nel 2019, ma è ancora distante dai livelli di altri Paesi europei. La media nell’UE-28 è infatti al 64,1%. In Italia invece il divario rispetto agli uomini è del 17,9%, e anche in questo caso l’Europa è lontana, con una media del 10,4% riporta Ansa. Anche in settori nei quali le donne sono la maggioranza, come l’istruzione e la sanità, dove superano i tre quarti degli occupati, le lavoratrici faticano a fare carriera. Medici e professori universitari sono prevalentemente uomini: le dottoresse non superano il 42% e le docenti il 38%.

Nel Mezzogiorno il tasso di occupazione femminile è poco più della metà rispetto al Nord 

 “Continuano ad aumentare le donne che lavorano, ma molta strada rimane da fare”, scrive il Mef, aggiungendo che “sono soprattutto le donne tra i 45 e i 54 anni a contribuire alla maggiore occupazione femminile”, mentre “rimangono indietro le più giovani e le residenti al Sud e nelle Isole”.

Tanto che nel Mezzogiorno il tasso di occupazione è poco più della metà di quello del Nord, il 32,3%. E le altre grandi assenti del mercato del lavoro sono le giovani. Nel 2019 lavorava poco più di una ragazza su tre con meno di 35 anni, e la situazione è più difficile per le giovani mamme con figli piccoli. Le madri occupate tra i 25 e i 34 anni sono infatti solo il 60% rispetto alle donne occupate senza figli della stessa età.

“Serve una nuova e organica visione dei rapporti economici e sociali”

Per colmare il divario il Mef ha individuato “un’area rilevante del bilancio”, su cui è possibile lavorare per ridurre le disuguaglianze di genere “senza necessariamente generare nuovi oneri”. Queste spese ammontano al 16,5% del totale (al netto delle spese per il personale), pari a 118 miliardi e 700 milioni di euro.

“Per ridurre i divari di genere – afferma la sottosegretaria all’Economia, Maria Cecilia Guerra – non sono sufficienti sussidi, agevolazioni fiscali o interventi occasionali, ma serve una nuova e organica visione dei rapporti economici e sociali”, a partire dall’organizzazione del lavoro, dalla condivisione del lavoro di cura e dai servizi pubblici. Un tema, sottolinea Guerra, “è al centro delle priorità collettive che la crisi attuale ci ha chiesto di ridefinire”.

Mobilità post pandemia, si va più in bici e a piedi, meno in auto

La pandemia ha cambiato molte abitudini, e in fatto di mobilità urbana ha portato a una svolta in grado, forse, di contribuire realmente alla riduzione delle emissioni nocive. L’arrivo della pandemia ha influenzato fortemente il mondo degli spostamenti e della mobilità, sottolineando quanto l’inquinamento creato dai mezzi di trasporto sia un problema che non si può più ignorare, e generando comportamenti che si spera diventino regole di vita condivise da tutti gli italiani. A quanto risulta dall’inchiesta “Senti che aria”, promossa da Altroconsumo e finanziato da Regione Lombardia, con il contributo scientifico dell’Università Bocconi a oggi sono già in molti a scegliere di spostarsi più a piedi e in bici piuttosto che in auto, in moto e  scooter, o sui mezzi pubblici.

Quale mezzo di trasporto usare dopo il Covid?

La ricerca, che si concentra sulla città di Milano e la sua provincia, ha indagato l’esposizione dei pendolari alle diverse sostanze inquinanti del traffico, e l’impatto dell’inquinamento sulle abitudini di mobilità. E rivela l’emergere un nuovo approccio degli italiani nei confronti di inquinamento, mobilità sostenibile e abitudini di spostamento. A seguito dell’emergenza Covid-19 si registra infatti un cambiamento importante nella propensione degli italiani all’utilizzo dei mezzi di trasporto. Il 27% crede che utilizzerà di meno l’auto, il 25% userà meno moto, scooter e motorini, mentre il 34% dichiara che prenderà meno bus, tram e metro. Inoltre, il 37% si muoverà molto di più in bici, e il 47% prediligerà gli spostamenti a piedi.

Combinare più mezzi di trasporto può essere la soluzione

Scegliere di combinare più mezzi di trasporto può essere la soluzione per ridurre l’esposizione alle sostanze nocive, ma anche per ottenere un guadagno in termini di tempo. Infatti, secondo i risultati dell’indagine, il pendolare che affianca l’utilizzo di mezzi pubblici alla bicicletta riesce ad accorciare maggiormente i tempi di percorrenza rispetto a chi usa altre combinazioni di mobilità, riporta Adnkronos.

Diminuire la presenza di sostanze pericolose nell’aria

Dall’indagine emerge come i pendolari siano fortemente esposti a sostanze inquinanti nocive per loro e per l’ambiente. Nello specifico, chi si sposta in bici è particolarmente esposto al particolato e al NO2, ma meno al BC (Black Carbon), mentre gli automobilisti inalano più Benzene e NO2. Per quanto riguarda gli inquinanti veicolari, a Milano il 32% di chi ha risposto all’indagine usa l’auto 6-7 giorni su 7, mentre nell’Hinterland la stessa proporzione sale a più di 1 soggetto su 2, nonostante i tragitti casa lavoro siano inferiori ai 10 km nel 44% dei casi. Secondo l’analisi, poi, prima della pandemia ben il 71% dei rispondenti percepiva “spesso” la cattiva qualità dell’aria causata dal traffico in città, mentre in provincia era il 40%.

La Lombardia approva una misura da tre milioni di euro per ristoratori e vino di qualità

Tra i provvedimenti economici di aiuto a ristoratori e produttori di vino locali il Pirellone annuncia un intervento da tre milioni di euro. A seguito delle difficoltà causate al settore dall’emergenza legata al Covid-19 la Regione Lombardia ha infatti approvato una delibera per il sostegno del sistema produttivo vinicolo di qualità e per gli operatori della ristorazione. Si tratta di una misura straordinaria, che prevede l’assegnazione ai ristoratori lombardi di 12.000 voucher del valore di 250 euro ognuno per l’acquisto di vino di qualità presso i produttori della regione. La Regione prevede l’assegnazione di 2 voucher a ristoratore.

Rafforzare la collaborazione tra i produttori e i ristoranti delle aree a vocazione turistica e agricola

Incoraggiare e rafforzare la collaborazione tra i produttori di vino e i ristoranti delle aree a vocazione turistica e agricola è l’obiettivo della misura messa in atto dalla Regione Lombardia. Più in particolare, i voucher potranno essere richiesti dagli operatori della ristorazione, mentre i produttori di vino interessati dovranno aderire a una manifestazione di interesse, che sarà pubblicata da Unioncamere Lombardia entro il 18 settembre 2020. I produttori di vini di qualità in Lombardia potenzialmente interessati sono 700, mentre i ristoratori lombardi sono circa 6.000.

I voucher, riporta una notizia Askanews, potranno essere richiesti tramite il bando emanato da Unioncamere, e scegliendo tra le cantine che hanno aderito al progetto.

“Vedere anche in futuro sempre più vini lombardi nelle carte dei ristoranti”

“Procedura semplificata e risorse immediate – ha commentato l’assessore regionale all’Agricoltura, Alimentazione e Sistemi Verdi Fabio Rolfi – per una misura che i due settori attendevano. Con questo stanziamento mettiamo a disposizione dei ristoratori dei ticket da 250 euro che potranno spendere per acquistare vini di qualità nelle cantine lombarde. Intendiamo così anche creare rapporti territoriali virtuosi e collaborazioni tra produttori di vino e operatori per vedere anche in futuro sempre più vini lombardi nelle carte dei ristoranti”.

“Aiutare i settori in crisi e promuovere le nostre eccellenze è doveroso”

Si tratta di “Un lavoro di squadra – ha sottolineato Alessandro Mattinzoli, assessore regionale allo Sviluppo economico – che ancora una volta è premiante perché va incontro alle richieste che provengono dalle categorie, cioè da chi ogni giorno lavora e produce. In un momento così difficile aiutare i settori in crisi e promuovere le nostre eccellenze è doveroso ancor più di prima”, ha precisato l’assessore.

L’operazione sarà accompagnata anche da una campagna comunicativa, che vedrà pubblicazioni sui siti istituzionali, oltre a una vetrofania da esporre nei ristoranti interessati.