Mese: Aprile 2024

Qual è la dieta più sostenibile tra mediterranea, vegana o vegetariana?

Se la sostenibilità inizia (anche) dalla tavola, qual è la dieta più sostenibile? La filiera alimentate è responsabile del 30% delle emissioni di gas serra, di cui il 60% circa proveniente da prodotti animali. La dieta vegetariana e quella vegana hanno quindi un impatto minore sull’ambiente rispetto alla dieta mediterranea, e sono anche più sostenibili economicamente.

Emerge da un’indagine condotta da Altroconsumo, che ha chiesto a un nutrizionista di costituire tre diete equilibrate dal punto di vista nutrizionale  (apporto calorico giornaliero di 2.000 kcal). Sulla base degli alimenti e delle quantità fornite per ogni dieta, è stato calcolato il costo e l’impatto ambientale.
In ogni caso, consumando alimenti più sostenibili, valorizzando i prodotti vegetali stagionali,  riducendo il consumo di carne e latticini è possibile prevenire alcune malattie e ridurre l’impatto ambientale.

Produzione di CO, consumo di suolo e acqua

Una persona adulta che segue la dieta mediterranea ogni settimana produce 15kg di CO₂ equivalente, consuma 19mq di suolo e 1.880 litri di acqua.

La dieta vegana è quella che complessivamente ha il minor impatto ambientale. Infatti, pesa il 32% in meno di quella mediterranea e il 18% in meno di quella vegetariana. Questo perché la dieta non prevede alimenti di origine animale e si basa sul consumo di cereali, legumi, verdura e frutta, olii, bevande vegetali e semi. Una persona adulta che segue la dieta vegana ogni settimana produce 8kg di CO₂ equivalente, consuma 15mq di suolo e 1.810 litri di acqua.

Il costo del regime alimentare

La dieta vegetariana che rispetto a quella vegana prevede anche uova e latticini, consuma più acqua, anche rispetto alla dieta mediterranea.
Infatti, un adulto che segue la dieta vegetariana ogni settimana produce 11kg di CO₂ equivalente, 17mq di suolo e 1.980 litri di acqua.

Ma il regime alimentare più economico è quello vegetariano. Il costo settimanale della spesa vegetariana è di 53 euro circa. Meno di quanto spende chi segue la mediterranea, che deve mettere in conto 63 euro circa a settimana, il 17% in più rispetto alla vegetariana.

Frutta e verdura fanno salire il conto

Per i vegani il costo della spesa settimanale è simile a quella dei vegetariani, 54 euro, mentre quella mediterranea costa il 15,5% in più. I vegani spendono di più per le alternative vegetali alle proteine (legumi, frutta secca, fonti proteiche alternative, come seitan e tofu,) che incidono per il 16% sulla spesa settimanale, oltre a frutta e verdura, che rappresentano il 45% della spesa.

Per chi segue la dieta mediterranea a incidere maggiormente sul costo della spesa settimanale è il pesce, che ne costituisce un quinto, mentre la carne pesa per l’8% e i latticini il 12%. Ma sono soprattutto frutta e verdura a far salire il conto, rispettivamente costituiscono il 16% e il 18% della spesa settimanale.

Italia, perchè è calata la voglia di “fare impresa”?

I nostri connazionali hanno ancora il mito dell’imprenditorialità? Forse no. L’Italia si colloca infatti al 36º posto nella classifica mondiale per la propensione imprenditoriale del Paese. Negli ultimi dieci anni, si è assistito a una notevole diminuzione dell’inclinazione a avviare nuove imprese, con un calo ancora più evidente nel settore manifatturiero. Un dato su tutti: nel 2023, l’attività imprenditoriale è scesa al 60% rispetto al livello del 2010.

Questi dati emergono dal Rapporto GEM Italia 2023-2024, presentato dall’Universitas Mercatorum a Roma, presso la Sala Longhi di Unioncamere.

La valenza del GEM a livello globale

All’evento, come riferisce Italpress, hanno partecipato rappresentanti istituzionali, professionisti accademici ed economici, tra cui Giuseppe Tripoli, Segretario Generale di Unioncamere, Amedeo Teti del Ministero delle Imprese e del Made in Italy, Giovanni Cannata, Rettore dell’Universitas Mercatorum, e altri esperti del settore.

Il GEM è diventato uno strumento chiave nello studio dell’imprenditorialità a livello globale, coinvolgendo 46 paesi e oltre 100.000 individui tramite interviste dirette, di cui 2.000 in Italia nel 2023. Il rapporto si propone di fornire una visione approfondita della situazione imprenditoriale italiana, identificando sfide e opportunità attuali e future per promuovere una maggiore attività imprenditoriale nel Paese.

Gli ostacoli che frenano l’imprenditoria 

Tuttavia, nonostante la ripresa degli ultimi anni, l’Italia rimane tra i paesi con una bassa propensione imprenditoriale, con un gap significativo tra l’interesse alla creazione di imprese e la loro effettiva attuazione. A pesare sensibilmente su questo divario ci sono sia fattori soggettivi, come la tendenza a ridurre i possibili rischi, sia fattori di contesto, come le difficoltà burocratiche.

L’istruzione come base dell’imprenditorialità

Il rapporto sottolinea l’importanza dell’istruzione nell’incoraggiare l’imprenditorialità, con una maggiore propensione tra i laureati. Per questa ragione è essenziale introdurre la formazione imprenditoriale nel sistema educativo. In questo contesto, l’Università annuncia l’avvio del Contamination Lab, un programma di formazione all’imprenditorialità aperto a studenti, dottorandi e assegnisti.

Non mancano i segnali positivi

Il GEM Italia rileva segni di ripresa negli ultimi anni, specialmente dopo la crisi economica causata dalla pandemia. Tuttavia, persiste una significativa differenza di genere nell’attività imprenditoriale, con tassi di attivazione più elevati tra gli uomini. Tale divario è più marcato in Italia rispetto ad altre economie avanzate.

Conclusione

In sintesi, il rapporto GEM sottolinea la necessità di affrontare le sfide strutturali e culturali che limitano l’imprenditorialità in Italia, promuovendo l’istruzione imprenditoriale e riducendo le disparità di genere per favorire una crescita economica sostenibile e inclusiva.

I social sotto la lente di chi seleziona il personale: a cosa stare attenti?

La diffusione dei social network ha rivoluzionato radicalmente il modo in cui i recruiter accedono alle informazioni di chi si candida per un posto di lavoro. I cacciatori di teste, infatti, utilizzano questi strumenti per la ricerca di nuovi talenti in maniera più massiccia rispetto al recente passato.

Un’indagine condotta da The Adecco Group su circa 500 recruiter ha messo in luce l’importanza cruciale dei social media nel moderno processo di reclutamento, con il 51% dei recruiter che dichiara di aver subito un’influenza negativa durante il processo di selezione dopo aver controllato i profili social dei candidati.

La presenza online esaminata dai recruiter

Questo dato segna un notevole aumento rispetto a dieci anni fa, quando solo il 12% dei recruiter era influenzato dai social. Ma c’è stata una crescita significativa anche rispetto al 2021, quando tale percentuale si attestava al 30,8%. Le ragioni dietro tale tendenza sono varie: il 37% degli intervistati ha citato la presenza di foto considerate inappropriate, il 27% ha menzionato tratti di personalità evidenziati dai contenuti pubblicati, mentre il 17% ha notato manifestazioni discriminatorie di natura sessuale e/o razziale nelle interazioni dei candidati.

Dopo aver ricevuto il curriculum vitae, i recruiter intervistati dichiarano di esaminare la presenza online del candidato, concentrandosi sulle esperienze professionali nel 65% dei casi e sui contenuti postati nel 47%. Insomma, come e cosa si posta sui social network fa la differenza fra una potenziale assunzione o meno.

I social influenzano i processi di reclutamento

“L’uso dei social media da parte dei candidati sta sempre più influenzando le decisioni di reclutamento”, ha affermato Lidia Molinari, direttore people advisor di Adecco Italia. “I dati ci dimostrano che lo screening sui social è uno strumento cruciale nel processo di selezione per oltre la metà dei recruiter, che non solo sfruttano i social media per la ricerca di talenti, ma anche per valutare i candidati.”

“Per questo motivo”, ha sottolineato, “consigliamo a chiunque stia cercando un’opportunità lavorativa di sviluppare un personal branding sui social che tenga conto della selezione dei contenuti prima della loro pubblicazione e di prestare attenzione alle modalità di interazione online”.

LinkedIn si conferma il social professionale per eccellenza

Tra i social media più utilizzati per la ricerca di candidati, Linkedin si conferma al primo posto, con il 96% dei recruiter che lo utilizzano: il 67% per la raccolta di candidature e il 60% per la ricerca di candidati passivi. Questi ultimi sono professionisti che non sono attivamente alla ricerca di lavoro e non si aspettano di ricevere proposte di lavoro, rendendo l’analisi dei loro profili social un componente fondamentale del moderno Social Recruiting.